Impaginando la dignità (perduta)

Serve solo una frase per spiegare questo titolo: sabato sera sono stata a Roma al concerto dei Take That. Quando si cresce, si sa, cambia il modo di atteggiarsi: si diventa più calmi, posati, seri e si riesce a mantenere un certo contegno anche nelle situazioni di maggiore carica emotiva.

Ecco, questo non è per niente il mio caso.

Era il 24 ottobre 2007 e io urlavo come un’assatanata durante il primo concerto dei Take That che riuscivo a vedere. E così è stato anche nel 2011, nel 2015 e l’altro giorno, il 29 giugno 2019. La me stessa ventiseienne non riesce a reprimere la quattordicenne che si cela in agguato e ad ogni concerto di queste cinque quattro tre meraviglie (il loro numero negli anni è cambiato, ma la sostanza per niente) io non riesco a mantenere un contegno. Il che è anche piuttosto divertente, vi dirò.

Take That, 29 giugno 2019, Roma (credit: me stessa, penso che la scarsa qualità della foto parli da sola)

Arriviamo – io e mia cugina Ludo, l’unica ad avere il fegato di accompagnarmi in queste spedizioni musicali – a Roma alle 10:20, dopo essere partite da Milano con l’Italo delle 7:15. Già stanche a causa della sveglia alle 5:00, decidiamo che alla fine abbiamo rispettivamente 26 e 22 anni e quindi non è il caso di cedere alla vecchiaia e riposarsi: è arrivato il momento di fare le turiste disorganizzate e mangiare una bella cacio e pepe a Trastevere nonostante i 42° all’ombra (e l’abbiamo mangiata davvero la cacio e pepe bollente ;)).

Nonostante la nostra peculiare capacità di trovare tutti i musei e i monumenti sigillati (anche il Pantheon, che chiude solo un pomeriggio all’anno) la giornata è passata in fretta, talmente in fretta che alle 19.30 abbiamo perso l’ultimo autobus diretto per arrivare all’Auditorium Parco della Musica. Tuttavia – e so che non ci sto sponsorizzando tanto bene, ma vi assicuro che è così – siamo due ragazze piene di risorse (e io piuttosto logorroica): abbiamo trovato nel caos due sconosciute nella nostra stessa situazione, con le quali abbiamo diviso un taxi e siamo arrivate sul luogo del concerto con poca spesa, un’ora e dieci di anticipo e un bel bagaglio di conoscenza sulla storia e le case di Trastevere (anche il tassista era logorroico).

Vediamo una folla scalpitante di persone ai cancelli d’ingresso. “Strano” – me ne esco in tutta la mia ingenuità – “ad un’ora dall’inizio dovrebbero essere già tutti dentro a sudare e trepidare nell’attesa”. E invece no, perché le auto dei Take That non erano ancora arrivate e tutti li stavano aspettando fuori. E, ovviamente, non avevano intenzione di far attraversare nessuno. Mentre la priorità di mia cugina era riuscire a comprare il suo panino con la porchetta (sempre molto light) e poterselo mangiare in tutta calma sugli spalti, forse a me un po’ di ansia stava salendo: la me quattordicenne iniziava a scalciare, voleva essere partorita. Potrei proseguire raccontandovi di come sono quasi svenuta alla vista del braccio di Mark Owen che salutava dal tettuccio della macchina, ma credo che salterò questo passaggio e porterò la scena direttamente a noi che mangiamo il panino con la porchetta sedute sugli spalti (io con mozzarella e pomodoro, sono ancora una donna debole). Cut, please!

Andare in bagno non è stata un’impresa semplice (era l’unico aperto in tutto l’Auditorium), ma ce l’abbiamo fatta. Ed eccoci arrivate al clue della giornata: alle 21.02, quando i panini erano belli che masticati e digeriti, le luci si accendono sul palco e la musica si alza. E io, in quel preciso momento, mi sono sentita talmente felice ed emozionata che – alla fin fine – mi sono riscoperta molto fiera del mio essere ancora un’adolescente in preda alle crisi ormonali quando si tratta di loro. Ho urlato e cantato come ogni volta e ho sentito l’adrenalina scorrere così forte da non avvertire più nessun male alle piante dei piedi o nessun dolore da ciclo. L’abbiamo persa la dignità, eccome, ma quanto è stato divertente? Non ringrazierò mai abbastanza i Take That per la loro musica e il loro atteggiamento professionale ma caloroso; mi hanno regalato tanti, troppi, momenti felici.

Altra pessima foto scattata da me medesima

Non me la sento di recensire il concerto, sarei decisamente troppo di parte, ma mi sento di dire che questi tre artisti hanno messo il cuore in ogni singolo secondo e hanno fatto del loro meglio per far sì che le persone uscissero soddisfatte dal palazzetto.

E’stato proprio così, abbiamo sceso le scale dagli spalti con dei sorrisi da ebeti che la metà bastava, progettando già il viaggio per un futuro concerto.

Potrei concludere raccontandovi di come abbiamo perso l’ultimo pullman che arrivava esattamente sotto il nostro Bed&Breakfast e dell’odissea per arrivare alla stanza, tra minuti di attesa, stazioni della metro chiuse, lacrime e sudore. Ma direi che ho già maltrattato la nostra mia dignità abbastanza in queste poche righe, quindi facciamo che siamo a posto così. Bye bye 🙂

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